«Hey sbirro, dobbiamo parlare.» dissi con tono serio.
Christian mi guardò da oltre la spalla con quel fare da superiore che avevo sempre odiato.
Marco, affianco a lui, disse «Hei, come ti perme–..» «Tranquillo.» lo interruppe «Siamo un po' indaffarati in questo momento. Si sta per abbattere su di noi un tornado, o te lo devo ricordare?» ‹Quanto vorrei toglierli questo tono di bocca con un pugno.› -ma dovetti rimanere calmo, ora non era il momento.-
«Dimmi, ti sarei mai venuto a parlare?» mi osservò «No, appunto.»
«Vieni con me.»
«Non serve.»
Si voltò di nuovo verso la mia figura «Ma come non–..» «Lui è quì.»
Notai la contrazione dei suoi muscoli dalla mandibola «Lui... chi?» temette la risposta, glielo lessi in faccia.
«Claus è quì dentro e si spaccia per Aron.»
Reagì in modo improvviso, tirò un calcio contro al muro!
«Lo sapevo cazzo!» ne tirò un altro «Quel giorno in infermeria avevo avuto la sensazione che non ci fosse Aron davanti a me, ma qualcun'altro. Merda!»
Lanciò altre tre o quattro imprecazioni.
Io «Se–..» si avventò su di me, mi strinse il collo della maglia «Dov'è?! Tu, lo sapevi!»
«E quando avrei potuto parlart–..» «Dov'è?!» mi gridò in faccia.
Alcuni sguardi erano già puntati su di noi da quando aveva iniziato a voler imitare Jackie Chan.
«È uscito.»
«Uscito?! E perchè non l'hai fermato?» strinse ancora di più la presa.
«L'ho perso di vista!» alzai la voce a mia volta «E mollami!»
Mi guardò in cagnesco e appena lasciò la presa lo spintonai.
«Prima che potessi fermarlo si è confuso in mezzo agli altri!» gli dissi «Hey! Dove stai andando?!» non mi diede risposta, così lo seguiì a ruota.
Christian Jay (POV'S)
‹James James James James James James James, devo trovare James!› -continuai a pensare imperterrito.- «James!»
«Hei Chri, che succede?»
«Devi avvertire immediatamente il direttore.» gli dissi mentre stavo già correndo via.
Lui mi chiese «Non puoi farlo tu? Dove stai andando?»
«Devo correre fuori!»
«Cosa?! Sai che–..» lo interruppi «Claus è quà ed è fuori probabilmente con Aron!»
«Merda.»
Corsi verso le celle d'isolamento, verso quell'unico possibile accesso.
Quando ci fui davanti, per mia fortuna, era presente solo il cartongesso. L'entrata non era stata murata neanche stavolta. Avrà pensato che non servisse, non per ora, per lo meno, e per la prima volta nella mia vita dovetti ringraziarlo.
Il telefono mi vibrò in tasca ed imprecai in modo automatico. Non gli diedi retta, non avevo tempo ora.
*crrrr crrrr*
«Christian!»
Presi il walkie talkie in mano.
«Mi sente?»
Udiì un'altra voce «Sì, sì, è acceso.» ‹Ma è James?› «Chr–.. Emh emh. Cioè, punto 02, mi senti?»
Alzai gli occhi al cielo in automatico, perchè doveva comportarsi da soldatino davanti a lui? Questo suo lato mi avrebbe sempre infastidito.
Cliccai il pulsantino.
«Sì. Ci sento, "punto 06".» lo scimmiottai, peccato non potesse vedere pure la mia faccia.
«Dove sei Christian?»
Quella era la voce di mio padre.
«Ti ho domandato dove sei, rispondi.»
Sospirai «Sono nella parte dove si trovano le celle d'isolamento.»
«So cosa stai pensando di fare.» mi disse «Non ti azzardare a buttare giù quel muro!»
«E cosa dovrei fare?! Rimanermene con le mani in ma–..» venni interrotto «Puoi scordarti di pensare di andare a cercarli!» tuonò «Claus potrebbe essere armato, ho già contattato chi di dovere.»
«E quanto pensi che ci metteranno?» gli domandai in seguito conoscendo già la possibile risposta.
Ci fu silenzio per un attimo.
«Ecco, appunto. Non lo sai!»
«Be' non puoi comunque pensare di andarci.» fu irremovibile «Ora James ti raggiungerà.»
Digrignai i denti «Non ho bisogno del baby sitter.»
«Eccome se ne hai bisogno.»
Spensi l'aggeggio, non volevo più ascoltarlo.
Aron Jhones (POV'S)
Il vento continuò ad aumentare.
«Taylor! Cristo, basta!»
Le misi una mano dietro la testa per fermare il suo istinto di tirare testate contro alla parete dietro di lei.
*krakoom*
Un bagliore. Un suono.
*krakoom*
E poi un altro. E molti altri.
Una miriade di fulmini si stavano estendendo nel cielo espandendo il loro dominio di esso a macchia d'olio.
«È pericoloso starsene quì.» mi alzai «Dobbiamo andarcene prima che–..»
*krakoom*
ll fulmine colpì il terreno.
*krakoom*
Mi ero già buttato su lei. Ci trovavamo rannicchiati su noi stessi contro la parete a cercare un riparo che non ci avrebbe potuto dare.
La strinsi a me affondando il viso fra i suoi capelli, stava tremando. E non seppi se per il freddo, per il discorso precedente, o perchè io le fossi così vicino. Perchè, io, se stavo tremando, era per questo.
‹Non mi piace questo contatto. Non mi piace questa situazione.›
Intanto, il cielo nero pece sopra di noi non aveva ancora dato tregua.
*krakoom*
Un altro fulmine si abbatté per terra e 'sta volta fu più vicino.
Taylor «Aaaaah!»
Con ancora le mie braccia attorno alle nostre teste le intimai di alzarsi, la presi per il braccio e la tascinai assieme a me.
Corsimo più che potemmo mentre il vento ci stava remando contro e mentre la paura che un fulmine ci colpisse era alle stelle.
Oltrepassata la parete, fummo nel giardino.
Taylor indicó il cielo «Guarda!»
Il vento era talmente fastidioso che ti impediva di poter tenere aperti gli occhi a lungo.
Misi una mano davanti al viso usandola come se fosse una visiera. -Quando ebbi acquistato la visione necessaria spalancati gli occhi nel mentre che pensai:- ‹Quello è un cazzo di tornado.›
«Dobbiamo entrare!»
«Ma non sarà peggio?»
«Preferisci rimanere quà fuori?!»
Stavamo urlando per farci sentire l'uno dall'altro.
Si guardò in giro.
Mi ci avvicinai «Non c'è molto da pensare!» e la portai dentro.
Quando fummo all'interno si sentiva l'odore di muffa e di umidità, e quell'odore... Odore di legno bruciato. Di fumo vecchio, di cenere.
Ero consapevole del fatto che tutt'ora lo sentissi solo io. E lo avrei sentito sempre. Quel tipico odore che ti si imprime addosso, sulla pelle, che ti impregna i vestiti, e le pareti. E anche i ricordi.
Con tutti gli spifferi che c'erano quà dentro la temperatura non era delle migliori. Il vento che proveniva da fuori passava per questi corridoi e la si poteva sentire sia sulla propria pelle che nell'aria.
Faceva freddo.
Taylor si cinse le spalle, ed io la osservai, silente.
‹Quello che ha detto. Lei...› -pensai.- E mentre la guardavo ricordai di non aver terminato il nostro discorso.
«Christian è tuo fratello.» buttò fuori dalle labbra di punto in bianco.
Rimasi a fissarla, mi aveva colto impreparato.
«Ora è tutto chiaro.» ‹Non farlo.› «Ora capisco.» ‹Non puoi.›
«Non parlare come se ora sapessi tutto di noi.» spinsi fuori con rabbia repressa.
Avevo già distolto lo sguardo dalla sua figura.
E ricominciò a parlare «Lui è libero, può uscire là fuori. Mentre tu sei rinchiuso quì.» ‹Sta' zitta.› «Ma le colpe che hai tu le ha anche lui. Allora... Perchè?»
Mi ero già mosso. L'avevo già sbattuta contro al muro con veemenza, le stavo stringendo le spalle in una morsa.
«Tu non devi entrare nella mia vita.» ringhiai, stanco.
Lei non fece una mossa. Mi guardò e basta.
«Ci sono già dentro. Fino al collo.» rispose.
«No!» abbaiai.
‹Perchè ora ti comporti come un bambino a cui hanno appena tirato via il giocattolo che non voleva condividere con nessuno?›
«Ti ci sei infilata tu!» serrò gli occhi quando le urlai in faccia.
«No.»
«Come?»
«No!» mi spintonò «Tuo fratello è venuto da me!»
Indietreggiai e la fulminai con lo sguardo «Che cosa c'entra lui adesso?!»
«C'entra!»
Serrai la mandibola «Be' ma non col fatto che tu sia infilata più volte nella mia cella!»
Se ne rimase zitta.
«Vedi?!» la indicai con un cenno della mano.
Quando mi stetti per voltare, le sue parole mi bloccarono.
«Tuo padre aveva chiesto di vedermi.»
-Sbarrai gli occhi- ‹Cosa?› «Come hai detto?» tornai a guardarla.
«Voi, voi tutti, mi fate entrare nella vostra vita.»
«Oooh.» feci di no col dito «Non provare a fare la vittima.»
«Io sono una vittima!» il suo tono di voce sovrastò il rombo dei tuoni «Sono stata vittima di gente che mi ha messo le mani addosso, di quel bastardo che ha violato quasi ogni mio muro mettendomi in ginocchio, di Nicolas e delle sue bugie, di tuo fratello, e di te!»
«Di me?»
Taylor non ebbe finito «Sono anche vittima di pensieri che non sono i miei, di sogni orribili, di voci che non voglio sentire, di posti che non voglio ricordare, di–..» «Come questo?» lanciai la pietra.
E lei si fermò. Si guardò attorno, spaesata, sembrava essersi accorta solo adesso che ci trovavamo nella parte vecchia.
Mi avvicinai «Perchè eri quì?»
«Non l'ho mai detto.»
«Non c'entra! E sai cose che non dovresti sapere.» le ricordai «Perchè?!» gridai ‹Per quale fottuto motivo lo sai?!› «Come cazzo fai a sapere!» la scossi.
«L-lasciami!» si dimenò.
«Come!»
«Non lo so!» urlò quasi fino a perdere la voce.
Crollò a terra, lungo il muro.
Mi accucciai alla sua altezza «Perchè ora stai piangendo cazzo?!» le chiesi guardandola in faccia.
Si morse forte il labbro tremante.
«Perchè ho paura!» urlò nel pianto.
*krakoom*
Le luci soffuse sopra le nostre teste lampeggiarono.
Taylor tra i sussulti si mise le mani lungo il viso.
«Hey, cosa fai!?»
Cominciò a stringere forte le dita su di esso, fino a graffiarsi con le unghie.
«Basta!» cercai di prenderle le mani «Smettila!»
«No!» mosse la testa a destra e a sinistra con fervore.
«Ti ho detto di smetterla!»
Quando riusciì a spostarle quelle maledette mani il suo viso era deformato dal pianto.
Conoscevo quel tipo di dolore, così logorante, così fuorviante, da non riuscire più a conviverci. Da non volerci più convivere.
«Che cosa dovrei fare?!»
‹Avanti, rispondile.› -mi intimò.- Ma se lo avessi fatto non le avrei dato un buon consiglio.
Riuscì a liberarsi.
«Ferma!»
Continuò a graffiarsi il viso.
«Basta!»
Continuò a non ascoltarmi.
«La vuoi smettere di fare l'idiota?!» le dissi per l'ennesima volta mentre cercavo di riafferrarle le mani.
Questo suo dolore contrastante col buon senso io lo conoscevo bene.
«Tutti mi fanno male e per una vola che voglio farlo io mi viene impedito?!»
E fu una lotta di arti. Fu un continuo prendere e lasciare, afferrare, mollare, riafferrare.
I suoi movimenti erano così veloci ed inafferrabili che mi ritrovai ad un palmo dal suo naso nel cercare di riprenderla.
Ad un certo punto non ci vidi più.
Le diedi uno strattone.
E non fu più solo una lotta di arti, ma di pensieri contrastanti. Di occhi, e di labbra che ora si stavano toccando.
Nello scostarla via da me caddi all'indietro.
‹Non riesco a leggerci.› -pensai mentre guardavo dentro ai suoi occhi ora spalancati tanto quanto i miei.-
«Anche tu.»
La rimasi a guardare.
«Tu mi fai male, Aron.»
Taylor Vega (POV'S)
E quella, fu come una confessione.
Se c'era una cosa di cui ero a conoscenza era che nessuno mai mi aveva resa fragile quanto lui.
‹E la cosa, mi da fastidio.› -pensai con ardore.-
Ma ciò che odiai non fu la fragilità di per sé, ma di un sentimento che avrebbe potuto solo logorare.
Mi sfiorai le labbra ora bollenti, come se quel solo tocco avesse avuto accesso ad un pulsante presente nel mio sangue che ora aveva trasformato le sue connessioni, là dove passava, in lava ardente.
Il mio cuore ne fu la prova. Stava battendo nella mia cassa toracica per uscire. Era lui che graffiava, ora, e non più le mie mani. E fece più male.
Perchè la consapevolezza, faceva male.
«Sei tu che scegli di farti fare del male da me.» sputò veritiero.
‹Ha ragione. È vero.› -un risolio macabro s'impresse nell'aria.-
«Ma tu non ti rendi conto di come togli i pezzi agli altri, con le tue mosse, con le tue parole.» respirai quest'aria fredda che non bastò a spegnermi il fuoco «So soltanto che a furia di spezzarsi ogni volta, le persone prima o poi si sgretolano, fino a non rimanerne niente.»
Il suo sguardo stava bruciando la mia pelle, ne stava ledendo la carne.
«Ora non ti ho tolto niente.» disse.
«Mi hai tolto i movimenti.» accusai.
«Non ti ho rotto niente.» disse.
«Mi hai rotto il respiro.»
«Tu mi hai invaso l'esistenza.»
«E tu mi hai baciato.»
«No.» scosse la testa «Non volevo farlo.»
Non voleva. Non doveva.
«È stato un incidente.»
«Uno stupido sbaglio.»
Guardai nei i suoi occhi e vidi ogni suo spigolo ed ogni più pura e contorta sfumatura.
«Allora» e gliele guardai «spostati.»
I nostri occhi non erano più puntati gli uni negli altri, ma altrove. Laddove aveva ustionato prima ed ancora ustionava.
«E tu» e mi guardò «spostami.»
Lui, dritto negli occhi, ed io, dritto nelle labbra.
Claus Jhones (POV'S)
La mia rabbia era di tale potenza che avrebbe fatto invidia al tempo là fuori.
‹Stai calmo. Respira. Sta' calmo.› -dovetti ripetermi.-
Lei doveva tornare. Perchè a lei, lui, non piaceva. ‹Le piacevo io.› -ringhiò la mia mente.-
«Non so perchè.» parlò Aron «Ma più ti guardo, più credo di conoscerti.»
‹Oh, fratellino, non sai quanto hai ragione.›
La struttura ad un certo punto iniziò a tremare.
Taylor Vega (POV'S)
Aron si scostò da me «Dobbiamo allontanarci dalle finestre!»
Un rumore assordante si propagò nell'aria ed un sacco di pezzi di vetro ci volarono addosso come rondini. Ancora fra i vetri, stesa per terra a pancia in giù, feci forza con le braccia per tirarmi su.
Osservai il ragazzo sotto di me.
«Aron!» notai i tagli sul suo viso «Stai bene?!»
Mi aveva protetta col suo corpo, di nuovo. Se gli fosse successo qualcosa a causa mia non me lo sarei mai perdonato.
«S-sì.»
Mi scostai da lui così poté tirarsi su coi gomiti.
Guardai per terra, lungo il suo fianco «Sei ferito?!»
«Ora non c'è tempo!»
Ed aveva ragione.
Con l'aria che ora entrava da quelle finestre era quasi impossibile aspettare di tirarsi su senza rischiare di cadere per terra o di essere quasi portati fuori dal vento.
«Non alzarti.» mi disse «Dobbiamo strisciare fra i vetri e raggiungere il corridoio adiacente.»
E così, fecimo.
Col vento che mi premeva i polmoni e mi dava contro lo seguiì a ruota.
Appena fummo in piedi iniziammo a correre! Io davanti a lui e lui dietro di me.
Era difficile capire dove andare.
Aron «Di quà!»
Ogni forma di luce in questo posto ormai era completamente andata, non vedevo niente.
«Aron?» lo chiamai, ma non rispose.
Mi guardai attorno spaventata.
Svoltai prima in un corridoio, e poi, tornai indietro. Continuai a farlo per quattro o cinque volte ma finiì per perdermi del tutto.
‹Hai paura vero?›
La struttura tremò ancora. Mi accostai lungo il muro.
‹Alza lo sguardo, Taylor.› -mi disse, ed io lo feci, ma non avrei dovuto- ‹Conosci questa stanza?› Lessi sulla porta: n°4.
E mi bloccai.
...FLASHBACK...
Siamo in macchina.
«Ley, smettila di guardarmi così.» mi dice. ‹Come osa?›
«Il mio nome è Harley.» ringhio.
Se ne rimane zitto mentre continua a guidare.
«Ci ho messo molto tempo per trovarti.» ricomincia a parlare «Tre lunghi anni, da quando la tua casa è andata a fuoco.»
Comincio a grattare con le unghie la stoffa dei miei vecchi jeans. Gratto. Gratto, e gratto.
«Tua madre–..» «Non nominarla.» parlo aspramente.
Il mio sguardo nocivo è ora rivolto a lui. Ad un uomo che era sparito anni prima e che era sempre via per lavoro e che ora, ai miei 12'anni di vita, mi aveva strappato via da una stupida casa famiglia in cui sono rimasta per due anni.
Neanche conosco il lavoro che svolge. Io non so niente, proprio niente. E non avevo intenzione di chiederglielo. E non me ne poteva proprio fregare.
«Mi dispiace che sia morta.»
«A me invece no.» rispondo veritiera.
«Bene, Ley.« ‹Ancora con 'sto nome del cazzo.› «Sai dove ti sto portando?»
Dico con noia «Non me ne frega niente.»
«Oh, presto te ne fregherà.» dice Philipp «Ti sto portando sul mio posto di lavoro.»
«Ma quanto me ne frega ancor di meno!»
«Ti importerà. Ti importerà.» ripete fra sé e sé.
‹Un carcere?› -lo guardo quasi con interesse.-
Senza neanche passare i controlli ci dirigiamo in una parte un po' diversa, quasi più "moderna", pur se chiaramente vecchia. Osservo le mura, i corridoi. Le stanze.
Siamo davanti alla n°4.
...FINE FLASHBACK...
‹No.›
‹Non vuoi sapere?›
‹No.›
‹Non vuoi scoprire chi sei?›