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Chapter 43 - XLIII° usanze del 1600

Conoscevo alla perfezione questo carcere, quasi più delle mie tasche.

È un po' come se fosse casa tua. O sbaglio?›

‹Taci.›

Hai quasi passato più tempo quì che nella tua vera casa.›

‹Taci!› -e sembrò stranamente ascoltarmi.-

Dopo essermi diretto nell'angolo del cortile in cui non veniva mai nessuno con uno sforzo spostai il vecchio muretto ormai in procinto di crollare del tutto nonostante lo avesse fatto riparare solamente qualche anno prima.

Era stato issato su per separare la parte vecchia del carcere da quella di adesso. Una volta non c'erano mura, porte chiuse, pareti nuove. No. Una volta questo posto era del tutto attivo, ma, dopo quell'incidente...

Ebbi una fitta alla testa.

Digrignai i denti. Conficcai le unghie nei palmi.

Te lo ricordi... vero?›

‹No.› -pensai fortemente- ‹Non voglio. Non adesso.›

Dopo aver varcato il cortile osservai la vecchia fontana in marmo al centro del prato ancor meno curato di quanto lo era una volta.

Sono anni che non vengo più quì.› -pensai tra mé e mé.-

Avevo l'abitudine di rifuguarmi spesso in questo posto, per pensare, per stare solo, per riordinare i pensieri, ed ero l'unico ad esserne a conoscenza. Per questo aveva sempre funzionato.

Quando ero molto più piccolo mio padre viaggiava spesso a causa del suo lavoro, c'era e non c'era. Si era messo a lavore assieme ad un altro uomo per aprire diverse "strutture reindirizzanti" e a quanto pareva le cose per un periodo stavano andando piuttosto bene.

Da avere una sola casa, più che modesta, arrivammo ad averne persino due. Una a Londra ed una quì in Italia. Tutto ciò per facilitare gli spostamenti ed avere un porto sicuro.

Una volto portò me e Claus con lui. Voleva mostrarci ciò che un giorno sarebbe diventato nostro da gestire ma non poteva sapere che entrambi saremmo diventati un qualcosa che non avrebbe mai potuto controllare o prevedere. Ed oltre a questo, non avrebbe potuto prevedere neanche tutto il resto.

Nostro padre non era mai stata una persona onesta. A lui piaceva avere tutto subito e quando lo richiedeva. E su questo eravamo sempre stati molto simili a lui.

L'ombra di una sorrisetto inasprito si 'poggiò all'angolo delle mie labbra.

Ma chi ancora era peggio, era chi con cui aveva scelto di mettersi in società.

Lui...›  -pensai con odio profondo. Una sensazione tediosa, malsana e lugubre, si fece spazio in me.-

Uno era senza scrupoli, mentre l'altro...

«Psicopatico.» pronunciai con una lentezza disarmante.

Se uno era il diavolo, l'altro era la sua bestia. Ma non ai suoi servizi, oh, no... Era completamente fuori controllo. Era l'inventore dei gironi. E da buon inventore era proprio lui quello che ti ci portava a spasso.

Se uno ti rinchiudeva all'inferno l'altro ti faceva fare il giro.

E che giro...› -sorrise nel buio.-

Riapriì gli occhi. Neanche mi ero accorto che li avessi chiusi.

Un brivido. ‹Cristo.› -imprecai.-

Molte cose, ancora adesso, faticavo a ricordarle. Tutta colpa del Retsulc.A!

Ma ricordavo quel giorno.

...FLASHBACK...

«Un viaggio?» dico con la mia vocina.

Mio padre guarda me e Claus.

«Sì.» risponde atono «Stiamo per acquistare finalmente una vecchia struttura che è in piedi dal 1600 ed è tutt'ora funzionante.»

«Hey...»

Mia madre entra in cucina, tiene Christian in braccio, la sua pancia è già più evidente. Quando mi passa accanto gliela accarezzo e lei mi lascia un tenero bacio sulla nuca.

«Li vuoi portare con te?»

«Sì, una gita non gli farà male.» dice mentre neanche la guarda in faccia.

Lei annuisce, poi chiede «Hanno solo cinque anni...» e in seguito domanda, sapendo che non sarebbe stato tenuto in considerazione quel che avrebbe detto «Quanto starete via?»

«Solo un paio di giorni.» dice lui «C'è di mezzo un grosso affare e vogliono conoscermi. Philipp ci lavora già da anni, e finalmente,con uno dei suoi soliti macchinamenti è riuscito a farsela dare in mano.»

«Capisco... E di cosa si tratta?»

Stanno davvero conversando normalmente?

«È un posto a biuso.»

La conversazione si chiude così e poche ore più tardi partiamo.

Dopo essere scesi dall'aereo ci dirigiamo nella nostra casa italiana.

Appena entriamo io corro ad ispezionare ogni stanza «Che bella!» dico con entusiasmo.

Odo dei passi, Claus entra in salotto «A me non piace.» dice.

Lo guardo «Perchè?

In tutta risposta lui fa spallucce.

Claus non è mai stato di tante parole, mentre io tutto il contrario.

Quando era piccolo pensavano che avrebbe avuto dei problemi col parlare durante lo sviluppo ma invece era semplicemente stato taciturno da sempre e con un intelligenza piccata.

Lo conoscevo bene, così lo sprono «Non ti piace cosa?»

«Essere quì con lui. Il perchè siamo quì. E poi, perchè siamo davvero quì?»

Fu mia la volta di alzare le spalle.

L'unica persona con cui ha sempre parlato tanto sono sempre stato io.

Sorrido tra mé e mé. ‹È una cosa da gemelli.› -e questa è una frase che ci ripetevamo spesso fra di noi.-

...FINE FLASHBACK...

Quella volta fu l'unica che ci portò da qualche parte con lui e fu una noia mortale tra raccomandazioni e rimproveri.

‹E quel giorno conobbi lui. Fu lì, che lo vidi per la prima volta.› -non mancò di ricordarmi.-

Mi guardai attorno.

Questa struttura era molto vecchia, del 1682, con precisione. Il tutto non era mai cambiato, ma solo mutato e cresciuto.

Mio padre e quell'uomo erano due persone potenti ed oltremodo intrappolate nel passato e nelle vecchie usanze e forse proprio per questo motivo persero quasi tutto ciò che avevano costruito.

L'unico posto che gli rimase, fu questo. Proprio dove ci trovavamo tutt'ora. Era da sempre stato il suo luogo intoccabile.

Negli anni si era fatto le sue conoscenze sbagliate costruendosi attorno una botte di ferro. Come aveva fatto? Aveva delle doti per queste cose. Era da riconoscere.

Il suo socio, Fhilipp, aveva acquistato questo posto senza dover sottoporre tutto alle solite tiritere ed ai soliti controlli.

Era sempre stato bravo in questo. A celare, nascondere, mentire, rigirare. Da sempre.

Forse era per questo che erano andati d'accordo fin da subito, oltre a ciò, uno non si immischiava mai negli affari dell'altro nonostante fossero in combutta.

Mio padre si era preso la parte penitenziaria mentre lui la parte ospedaliera, ovvero il manicomio.

Mi passai una mano sul viso, non volevo starci a pensare troppo.

È difficile, vero?›

Grugniì.

Ricordare... uccide.›

Quando alzai lo sguardo mi sembrò di vedere mia madre armeggiare in questo giardino.

Gli angoli delle mie labbra si protesero all'insù.

Si era sempre presa cura di quel che la circondava. Anche della cosa più piccola ed insignificante.

Sempre, con delicatezza. Di qualsiasi cosa si trattasse.

Era sempre stata una donna forte, ma questo non era bastato. E la sua sopportazione non aveva mai avuto limiti.

Forse è proprio questa che l'ha spezzata e poi uccisa.› -deglutiì, forte, ma quel groppo in gola non diede cenno di andarsene.-

Il mio sguardo ricadde nello stesso punto di sempre, sui petali di quei garofani tendenti al rosso che ancora non erano morti.

...FLASHBACK...

Guarda...›

Non ne ho il coraggio. Non oso farlo.

Guarda!›

Lentamente abbasso lo sguardo. Lo punto ai miei piedi.

Rileggo il suo nome più e più volte «Josephine Jay...» pronuncio a bassa voce.

La pesantezza che mi si annida nello stomaco non fa altro che aumentare di peso.

Le manette mi stringono i polsi.

«Ciao... ma–..» mi blocco.

Non ci riesco.› -penso fortemente.-

Serro le palpebre.

Faccio per aprire bocca di nuovo «I–..» ma, poi, mi rifermo.

Che cosa avrei potuto dire ad un pezzo di pietra con scarabocchiato sopra il suo nome?

La colpa è mia.› -dissi nella mia testa ciò che non sarei mai stato in grado di dire davvero ad alta voce.-

...FINE FLASHBACK...

Poco tempo prima che morisse mi aveva fatto fare una promessa.

Smettere.

Smettere con tutto ciò che ero e che facevo una volta.

Ma tu non l'hai fatto.›

‹Invece l'ho fatto. Ho smesso di fare tante cose, cose che ora non mi permetterei di rifare.›

‹Ma non l'hai fatto con te stesso.›

Mi strofinai la nuca.

Sia i miei mostri che i miei pensieri non facevano altro che mangiarmi la mente ogni giorno, mi sgranocchiavano le interiora, fino a raggiungermi l'anima, ed io non avevo mai fatto nulla per fermarli. Li avevo solo alimentati col passare degli anni.

Ricordai una storia che mia madre mi lesse.

I protagonisti erano due lupi. Un lupo bianco, col pelo candido come la neve, puro. Privo di mali. Buono. E poi c'era l'altro. Il suo esatto opposto. Con un pelo color catrame e lucido quando lo possa essere la lama di una spada. Una bestia che col proprio ululato era in grado di farti venire gli incubi la notte e i brividi a distanza di chilometri. Assetato, e in continuo movimento.

Lei mi aveva sempre detto che sia uno che l'altro vivono dentro di noi e che 'sta a noi medesimi decidere quale nutrire dei due.

Be', io avevo sempre scelto quello sbagliato.

Quando lo capiì, fu tardi.

Dopo aver smesso di nutrirlo oramai quello bianco, debole com'era, probabilmente era già stato schiacciato. Non puoi dare da mangiare ad una bestia tutti i giorni e poi smettere. E forse, se avessi smesso di farlo prima, se non fosse rimasto fragile e privo di difese, non sarebbe stato divorato.

Crescere col male non portava mai a cose buone.

Glielo hai promesso.›

«Lo so!» risposi ad alta voce anziché farlo nella mia testa come al solito.

Non ero mai stato in grado di mantenere le mie promesse.

Se non ero in grado di mantenere la parola con me stesso come avrei potuto pensare di farlo con qualcun'altro?

Mi accesi una sigaretta e ne presi un tiro così lungo da poter arrivare ad ustionarmi i polmoni.

Lo vuoi, n'é vero?› -mi parlò- ‹Peccato che tu non possa.›

-Contrassi la mandibola- ‹Lo so cazzo!›

E lo sapevo davvero che non potevo permettermi di pensarlo e tantomeno di farlo.

La morte sarebbe una liberazione troppo clamorosa per te. Lo sai. No? In questo credi. A questo pensi.›

E sapevo anche questo. Era la vera verità.

Avevo sempre scelto di continuare a vivere per un solo motivo. Pagare. Caro. Tutto.

Avevo scelto di non dar pace ai miei mostri. Avevo scelto i miei tormenti viventi anziché la pace dei sensi.

Avevo deciso di morire, tenendo gli occhi ben aperti, vigili, non osando chiuderli. Mai.

Taylor Vega (POV'S)

Mi trovavo col naso puntato all'insù. Fra non molto sarebbe iniziato a piovere, il cielo oscurato dalle nuvole parlava chiaro.

La spalla finiì con forza contro la porta massiccia del cortile.

«Ouch!» mi lamentai. -Pensai nel mentre che me la stavo massaggiando- ‹Ah, ottimo.›

I suoi occhi blu scuro mi stavano incenerendo.

«Ti sei fatta degli amici è?»

«Che cosa vuoi.» dissi atona, ormai non mi spaventavano più i suoi modi.

Mi studiò con attenzione cercado di capire da dove attaccarmi «Peccato, non potrò più soprannominarti come prima.»

La guardai bene «Sì, Rose. Un vero peccato.» le diedi corda con noia.

Appoggiò tutto il peso sul braccio con cui si stava sorregendo «Credi davvero che dopo esserti fatta degli amici le cose cambino? Sveglia. Non è così, non sono tuoi amici.» Di che cosa blatera?› -inarcai un sopracciglio piuttosto confusa.- «Cos'hai da guardarmi così?!»

«Non capisco perchè tu mi stia facendo questo discorso.»

Rose sbatté le ciglia un paio di volte e poi si decise a rispondere «Pensi che una come te possa stare con–..» «Con che cosa?» mi avvicinai di poco al suo viso «Con dei criminali?»

«No.» disse «Con la feccia.»

Sbuffai una risata cruda «Non sono loro ad esserlo, ma tu, che cerchi di far sentire tutti come ti senti tu.»

Seppi che avevo fatto centro, lo notai dal suo sguardo.

Io «Sai che c'è?» ripresi la parola prima che potesse farlo lei «Ho capito come sei.»

«E come sarei?»

Rose digrignò i denti, era un fascio di nervi, e dal suo sguardo capiì che stava cercando di trattenersi dal non uccidermi seduta stante . Ma per quale motivo?

Ogni tasto che tocchi, di qualsiasi pianoforte si tratti, può rompersi.› -citò una vecchia frase che lessi tempo addietro- ‹E per rompere un suono, anche quello che più ti fracassa l'udito, basta rompere il tasto.›

Forse era per questo o forse era perchè ci stavano guardando con attenzione.

«Sola.» risposi ad un tratto.

Si allontanò da me. Mi guardò fisso.

In fine mi disse «Io non ho bisogno di nessuno! So essere forte anche da sola!» dopo che ebbe detto questo mi spuntò un sorriso spontaneo a fior di labbra «Cosa?! Cosa c'hai da sorridere adesso?»

La guardai triste. Tristezza, fu quel che provai.

«Chi è forte per davvero è in grado di chiedere aiuto agli altri Rose.»

La guardai con attentenzione.

E lo scorgo l'urlo nei tuoi occhi.›

Fece per aprire bocca un paio di volte, ed io, attesi. Attesi la sua risposta. Una risposta che nemmeno lei era quasi in grado di ribattermi.

«Taylor.» e per la prima volta, disse il mio nome «Una cosa è essere costretti a rimanere soli e un'altra è esserlo perchè lo si vuole.»

«Certo.» ribattei

«Certo che sì!» ribatté.

Ci guardammo, ci studiammo, con attenzione.

Non avevamo mai parlato. Non così, parlando davvero. Perchè questa, alla fine di ogni conto, era la nostra prima vera conversazione.

«Il tuo è orgoglio.» ricominciai a dire e lei parve ascoltarmi «L'orgoglio alza dei muri. I muri, dividono, Rose. E tu ne hai alzati tanti.»

Mise le mani davanti a sé «Non pensare di potermi entrare–..» «Dentro?» interruppi «L'ho già fatto.»

Sbuffò con sarcasmo «Be'. Nessuno ha mai pensato di poter varcare i miei muri e nessuno ci è mai riuscito, quindi dacci un taglio.»

In quel momento fui ben consapevole che quel varco si fosse ormai chiuso, ma ciò che volevo dire lo dissi lo stesso.

«Io lo sto facendo.»

«Cosa?» mi tirò un'occhiata divertita «Pensi di avermi capita?»

«Un minimo.»

Rise. Rose, rise.

«Fammi il piacere!» l'astio tornò a farsi spazio nel suo sguardo «Pensi che ti possa avvicinare?»

«Sì.»

«Non dire cazzate.»

«E perchè no?»

«Pensi che una come me potrebbe mai essere amica di una come te?»

Meschina, questo era. Usava questo come autodifesa.

«Non ti chiederei mai qualcosa.»

«Ma sono l'unica che te lo darebbe.» le dissi «Se solo tu lo facessi.»

Rise ancora. In modo nervoso.

Ed io le dissi poi «Quando avrai fatto i conti col tuo orgoglio saprai dove trovarmi.»

Dopo essermi voltata per andarmene mi arrivarono degli insulti che però mi scivolarono addosso come acqua.

Mentre camminavo lungo le pareti del cortile notai una figura sparire proprio dietro al muro. C'erano pure i fantasmi in questo posto?!

Sì, certo, non lo sapevi? Questo è il nuovo castello infestato del 21° secolo.› -mi derise.-

Roteai gli occhi.

Mi avvicinai con occhi guardigni, piano piano, passo dopo passo. Se qualcuno mi avesse visto sarei potuta sembrare la pantera rosa!

Quando ci fui davanti notai che si trattasse di un semplice muro che a quanto poteva sembrare era stato costruito anni fa.

Se fosse stato un passaggio segreto? Così dopo aver pensato ad una possibilità del genere accostai l'orecchio a questo ed iniziai a tastarlo.

«Hei!» sobbalzai «Che cosa stai facendo?»

Dopo essermi voltata verso la guardia risposi «N-niente. Io...» non seppi cosa dire.

Oh, eddai. Diglielo che stavi cercando il fastasma.›

‹Dacci un taglio!›

«Quà non viene mai nessuno ed è vietato avvicinarsi.»

«Oh.» commentai, non ne avevo idea. -Un brivido mi scosse- ‹Quindi... era davvero un fantasma quello che ho visto?!›

Mi fece segno di avvicinarglisi «Dai, forza.»

Mi fece allontanare ma poco dopo fui nuovamente lì.

Ispezionai la fine del muretto color mattone dove mi sembrava di aver notato la figura trapassarlo poi i miei occhi vennero attirata dalla parete altissima che ci separava dal mondo esterno. Distolsi lo sguardo, non volli perdermi in brutti pensieri. Non era il momento. Ad un certo punto notai una crepa fin troppo evidente proprio lì, tra i due muri, alla loro congiunzione. Spinsi. Non si era spostata di un solo millimetro! Quando ritentai si udiì il rumore di uno sdrucciolio e mi allontanai. Niente gli avrebbe impedito di cadermi addosso.

Forse sarebbe stato meglio lasciar perdere.

Mah...› -pensai tra mé e mé.-

Avevo udito una voce?

«Il fantasma!» balzai all'indietro.

No. Non essere sciocca, i fantasmi non conversano da soli.› -mi dissi giusto per rassicurarmi.-

Tesi l'orecchio ma non sentiì più niente. Che si fosse trattato di un equivoco?

«Sì...»

Mi fu chiaro. Era una voce. E non si trattava sicuramente di un fastasma ma di qualcuno che parlava.

La mia curiosità mi spinse a riprovarci.

Pensai di spingere ancora una volta ma il momento dopo cambiai idea. Questo coso rischiava davvero di cadermi addosso!

Ci pensai su per un secondo ed osservai attentamente la crepatura. Mi balenò un'idea in testa, così decisi di provare a spostarlo e non a spingerlo. Notai che la mia pensata non fu sbagliata ma ci ero riuscita di ben poco. Ci misi più forza!

Alla fine con fatica immane riusciì nel mio intento.

«Che?!» esclamai.

Quando lo guardai la delusione prese possesso di me. Com'era possibile che con tutta la forza usata non lo avessi spostato di neanche mezzo metro?

Cercai di infilarmici lo stesso.

Non ti dai per vinta è?›

‹No!› -ero troppo testarda per farlo.-

Con una mano contro la grande parete ed il braccio ritorto dietro la mia schiena a farmi sia da appoggio che da slancio cercai di passarci attraverso. Continuai a tirare e finalmente, dopo essermi procurata sicuramente dei graffi da qualche parte, mi trovai dentro! Quasi caddi con la faccia sui sassi.

Quando finalmente mi alzai in piedi, dopo essermi tolta la polvere di dosso, alzai lo sguardo.

Che... posto... è... questo?›

Nonostante ne fossi rimasta sia stordita che meravigliata percepiì in me una sensazione che non mi piacque per niente. Fu tutt'altro che positiva.

Cos'è?› -mi chiesi- Perchè?›

Una strana paura mi trafisse e prima che potesse farlo ebbi una fitta. Il mio sguardo catturò una figura nitida, forse quella sensazione era stata data dalla potenza del suo sguardo?