Christian Jay (POV'S)
Mi trovavo davanti a quei garofani ormai schiacciati dalla pioggia che era venuta giù.
Udiì dei rumori.
Aron spuntò da dietro la siepe «E tu che cosa ci fai quì?»
«Potrei farti la stessa domanda.»
Non mi rispose, trascorse un attimo «Non pensavo che ci venissi.»
«Be'...» ridacchiai.
Mi tirò un'occhiata torva «Cosa c'è da ridere?»
«Secondo te chi ha mantenuto viva quella pianta?» indicai i garofani con un gesto del capo.
Aron chiuse gli occhi e tirò su un angolo della bocca «Oh, certo...»
Tornammo a contemplare quei fiori in rigoroso silenzio.
«È l'unica cosa rimasta viva in questo campo ora morto...» sussurrò.
Sospirai angosciato.
«Proprio come lei.»
Parlai senza pensare immerso nei pensieri.
«Proprio come me.»
-Gli tirai un'occhiata che però lui non colse- ‹Pensa che non lo abbia sentito?›
Sembrò che ci fossimo persi entrambi per un momento nei nostri pensieri, non facendo caso l'uno all'altro.
Espressi un pensiero riferendomi alla pianta «Si rimetterà in sesto.»
Aron non mi rispose.
Era troppo occupato ad osservare quell'unica fonte di vitalità. Ma forse, ciò che di più morto c'era quà attorno erano i nostri cuori.
Questo luogo distrutto era un'associazione alla nostra dannata infanzia.
Osservai il limpido cielo sopra le nostre teste.
«Saranno insieme adesso, no?» domandai in un sussurro.
«Smettila.» disse lui «Non sono tipo da queste cose, lo sai.»
‹So tante cose. Ma forse te lo scordi.›
«Ricordare le anime che non ci sono più le mantiene vive.»
Mio fratello non rispose.
«Non posso...»
Lo guardai «Fare cosa?»
«Parlarci!» sbottò «Come se meritassi di poterci parlare!»
-Chiusi gli occhi- ‹Già.› -poi li riapriì.- «Forse hai ragione. Ma la colpa non è solo tua.»
Aron mi guardò come se avessi detto una bestemmia «Dici davvero?»
«È ch–..» non terminai la frase, mi fu a mezzo centimetro di distanza dal volto e mentre teneva la mie spalle in una stretta ferrea sbraitò «Per quale fottuto motivo mi difendi?! Lo so che mi odi per questo!»
Distolsi per un attimo lo sguardo «Lo so, ma... eri soggiogato.»
«No! E lo sai! Lo sai bene!» mi costrinse a guardarlo «Perchè stai parlando in questo modo?!»
Lo spintonai «Hai ragione! Ti odio per questo! Ti ho odiato tanto!» fu mia la volta di urlare come un forsennato «Ma sai cosa c'è? Sono stufo. Stufo!»
Aron alzò le braccia in aria «Visto? Ho ragione!» e poi gli ricaddero lungo i fianchi.
«Ma sono stanco di tutto questo rancore...» gesticolai guardandomi le mani «Di tutto questo fottutissimo odio...»
«Sei stanco...» disse.
«Sì! Stanco!» gridai.
Aron scosse la testa «E facendo finta che non sia mia la colpa pensi di risolvere?»
«Sì!» poi mi corressi «No!» e mi corressi ancora «Forse!»
Mi indicò «Vedi? Non lo sai neanche tu!»
«Perlomeno io ci provo.»
«Provarci non serve a niente.»
«Oh, certo, tu sei un esperto di questo!» gli tirai la frecciata.
Socchiuse gli occhi in due fessure «Scusa?»
«Aaaaaaaargh!»
Feci avanti e indietro.
Continuai ad indicare prima me e poi lui con veemenza «Perchè io e te finiamo sempre così?!»
«Sarà la nostra natura.» fece spallucce.
Mi diede le spalle.
«Dove vai?»
«Via da quì.»
Non lo fermai, lo lasciai andare. La conversazione avvenutasi era stata anche troppo.
‹Lo sai che ha ragione. La colpa è la sua.›
Serrai le palpebre.
.NOTIFICA.
Tirai fuori il telefono dalla tasca posteriore dei pantaloni. Si trattava di un messaggio, sapevo già chi fosse. Neanche avevo salvato il numero.
SCONOSCIUTO: Visto che non rispondi alle mie chiamate perchè hai lasciato il telefono professionale nel tuo ufficio ti scrivo quà. Devi venire quì. Adesso.
‹Freddo, distaccato e dittatore pure nei messaggi.›
‹Lui non smetterei mai di odiarlo.› -dissi fra mé e mé.-
La colpa per la morte di mia sorella era sua. Grace aveva subito così tanto negli anni che era arrivata a togliersi la vita. E non glielo avrei mai perdonato.
Mia madre finì per andare del tutto fuori di senno.
Finimmo tutti dove desiderava che finissimo.
Nostra sorella era morta. Una "cosa" in meno da dover rimettere a posto. Non se ne dovevava più preoccupare, non era più un peso, qualcosa da controllare. Nostra madre invece venne rinchiusa nel manicomio dove poteva essere controllata h24 da lui. E poi c'ero io, quì, alla sua mercé. Poteva rigirarmi come voleva e non potevo dire granché. Nel mentre, Claus fu spedito via ed Aron fu rinchiuso quà, sotto chiave. Dove avrebbe potuto riaddestrarli.
‹È sempre andato tutto come voleva.›
Tutto ben controllato. Tutto secondo i calcoli.
Non avrebbe potuto desiderare di meglio.
La particolarità di nostro padre? Se qualcosa non si piegava al suo cospetto lui trovava il modo per far sì che lo facesse.
Arrivai nel suo ufficio, da quel giorno non mi ero più presentato quì.
«Finalmente ti rivedo.» ‹Ma che gioia...› «In questi giorni non hai fatto altro che evitarmi–..» «Se sono quì per questo, posso andare.» feci per voltarmi.
Egli «No, non sei quì per questo. E non provare ad andartene.»
Senza rispondergli mi girai nuovamente verso la sua figura.
«Siediti.» mi indicò la sedia di fronte.
Feci come diceva ma continuai a non guardarlo in faccia.
Mio padre mise i gomiti sul ripiano e 'poggiò il mento sui polsi scoperti.
«Andavo spesso a trovare una bambina.» -Lo guardai di sbieco- ‹Che mi vuole dire?› «Quando Philipp era ancora vivo e avevamo acquistato da poco questo posto andavo spesso a trovarla, mi incuriosiva.»
Lo osservai con fare sospetto «Parli dell'area vecchia?»
«Sì.»
«E sapevi che cosa faceva in quel posto?!»
«Più o meno.»
«Più o meno?!» alzai la voce, non potei crederci.
Mio padre mi ricordò «Eravamo soliti a non immischiarci–..» «L'uno negli affari dell'altro. Lo so.»
Cambiò posizione «Sai come si chiamava questa?»
«Mh, come.»
«Aveva un nome particolare.» fece una pausa «Lui la chiamava Ley.» ‹Ley...?› «Ma si chiamava in altro modo.»
«E cioè? Che vuoi dirmi?» non riusciì a capire dove volesse andare a parare.
Incrociò le dita fra loro «Lei diceva di chiamarsi in un modo e lui la chiamava in un altro, finché poi, col passare del tempo, lei fu convinta di chiamarsi così.»
«Cioè?» domandai.
«Col nome con cui la chiamava lui.»
Fui confuso «Non ti seguo...»
«Quello che aveva inventato stava funzionando.»
Fui ancora più confuso «Non sto capendo...»
«Ma poi morì in quel fatidico incidente insieme a lui.»
Perchè mi stava raccontando tutto questo?
«Come hai detto che si chiama quella detenuta?»
Sbattei le palpebre.
«Taylor.»
«E sai qualcosa sulle sue origini?»
«Che–..» mi interruppe «Lo sai?»
‹Ma che gli importa?›
«Non sto capendo perchè mi stai raccontando tutto questo ed ora mi stai facendo questa domanda.»
Si appoggiò allo schienale «Curiosità mia.»
Non disse più niente. Mi alzai in piedi.
«Come avevi detto che fa di cognome?»
«Vega.»
Scattò con gli occhi su di me.
Misi le mani avanti «Sì, è vero, è una coincidenza assurda. Lo so.»
Mi tirò una certa occhiata. Sapevo che non era il tipo da credere alle coincidenze ma altra spiegazione non poteva esserci.
02:45
Dopo aver chiuso la porta a chiave ed abbassato le tendine tirai giù la brandina.
Grace entra dalla porta.
«Ma che diamine...» esclamo.
«Ciao Chris.» sorride luminosa.
Scosto le coperte, mi alzo dal letto.
Lei mi dice «Dai, vieni con me!»
«Aspe–..» ma prima che possa finire la frase esce dalla stanza ed io la seguo a ruota. ‹Dove potrebbe essere andata?› -mi chiedo.-
Quando varco la soglia mi trovo nella mia vecchia casa a Londra.
-Mi stropiccio gli occhi- ‹Com'è possibile?›
Grace spunta davanti ai miei occhi «Hey!» dice «Andiamo?»
La squadro da capo a piedi. Porta un vestitino rosso a pois neri, ed è scollato. Troppo scollato per i miei gusti. Lei e quei suoi vestiti!
Le lancio un'occhiata torva.
Lei «Che c'è?»
«Non verrai con me vestita così da nessuna parte.»
Fa una smorfia «E perchè?» continua a guardami male.
«Hai 12'anni! Dove credi andare in questo modo?» la indico.
«Scherzi?! Sei troppo esagerato!» si altera.
Sto per ribattere ma la voce che sento mi fa bloccare sul posto.
«Ragazzi!» ‹Mamma.› -dico nella mia testa.- «Se non vi sbrigate ad uscire chiuderanno il negozio.»
«Mamma...»
Mi sto per fiondare in cucina ma Grace mi afferra per il braccio.
Io «No, aspett–..» «Dai andiamo!»
Usciamo di casa.
‹Sembra così reale...› -penso.-
‹Magari lo è.›
‹No, non è possibile.›
‹Niente è impossibile.›
Scuoto la testa.
Quando riapro gli occhi, è sera, siamo in cucina.
Sbatto le palpebre.
Noto che ho le mani impastate. Stiamo facendo qualcosa.
Ma come mi avrà convinto? Questa non era roba per me! Se Grace avesse sentito il mio pensiero a riguardo mi avrebbe picchiato.
Mi spunta affianco «Cosa c'è?»
Sobbalzo!
Mi guarda con quei suoi occhi cristallini, le lentiggini sono più evidenti sotto la luce. Il nastro azzurro proprio come i suoi occhi le lega i capelli biondi.
Sorrido.
E ad un certo punto esclamo «Eh, nulla, per me non è una cosa che deve fare un maschio.»
Il suo sguardo frizzantino muta in un'occhiataccia serissima.
‹Ops.›
«Okay.» fa spallucce ‹Okay...? Non è da lei!› -mi dico.- «Vai pure.» la guardo per attimo, poi mi volto «Ah, Christian...»
‹Lo sapevo!› «Ssiiì?» mi giro nel mentre.
Mi arriva un sacco di farina dritto in faccia! Faccio a malapena in tempo a chiudere gli occhi. Sono imbiancato da capo a piedi, mi scrollo la farina di dosso, ce l'ho dappertutto! Nei capelli. Nel naso. Nelle mutande. Ovunque!
«Piccola...» la sto per insultare.
«Ssiiì–..»
Adesso anche lei ha della farina nei capelli.
«Christian ti ammazzo!» si infuria.
*blam*
Qualcuno apre la porta all'improvviso.
L'atmosfera creatasi sfuma in un attimo, ci volle bene poco. Un rumore. Un solo, e stupido, rumore.
«Se torna son cazzi.» dice «Meglio pulire.»
‹Come si permette?›
Aron è già andato di sopra mentre Claus raccatta una mela.
«Miraccomando.» indica la cucina.
‹Non gli rispondere.›
‹Oh, sì, invece.›
«Sei tornato a casa per dare ordini?»
Non sono stato io a parlare, mi hanno preceduto. Entrambi ci voltiamo verso Grace.
Claus sogghigna «Come dici mocciosa?»
Le si avvicina ed io mi metto in mezzo già pronto al litigio.
*blam*
La porta viene sbattuta nuovamente e 'sta volta il tonfo lo si ode in tutta la casa.
‹Era un sogno.› -pensai già con gli occhi aperti- ‹Ed era così reale...› -premetti le mani sulla fronte.-
Sorrisi amaramente.
Mi mancavano le donne della mia vita, mi mancavano dannatamente.
Maick Sheldon (POV'S)
Mi stavo fumando il mio sigaro quotidiano. Erano le 10:00 del mattino ed io ero già sveglio da tre ore.
Notai la piccola Taylor.
-Sbuffai- ‹Perchè deve venire quì?›
‹Sii gentile.›
«Ciao Maick, ti disturbo?»
‹Sì.› «No.»
Dylan ci passò affianco «Buon giorno!»
Io risposi con un cenno mentre lei lo guardò a malapena, quando si girò rimase ad osservarlo attentamente mentre si trovava girato di schiena finché poi non scomparve dalla nostra visuale.
«Tutto okay?» le domandai in automatico.
Lei annuì, ma sapevo che c'era qualcosa che non andava. Però decisi di lasciar stare. Non volevo immischiarmici.
Taylor ad un certo punto aprì bocca «Sai, ho pensato molto al discorso che abbiamo fatto...» ‹Dove vuole andare a parare?› «Tu come fai ad ammettere a te stesso di stare male senza un motivo e rimanere comunque in pace?»
‹È la mattina delle confessioni e dei discorsi profondi. Hai visto?›
‹Avrei preferito altro sinceramente.›
Mi presi qualche minuto per risponderle «Non sono in pace. Sono solo consapevole.»
«E cosa ti fa stare male?»
Il mio sguardo ricadde su di lei.
«Il mio non arrendermi mai.»
...FLASHBACK...
‹Devo continuare le ricerche.› -penso- ‹Non mi devo fermare.›
L'indomani mi sarei imbarcato sull'ennesimo aereo.
Erano anni che seguivo le possibili tracce dei miei genitori. Volevo trovarli. Volevo sapere, sapere se fossero vivi.
Sapere sapere sapere. Questo volevo. E questo mi avrebbe portato alla rovina.
‹'Voglio andare con loro'.› -mi ricorda- ‹Questo urlasti alla suora. Te lo ricordi? Quando ti trovarono?›
‹Ricordo tutto alla perfezione.›
Ricordo ancora bene tutto quello che ho dovuto subire da parte degli altri bambini durante quegli anni.
Io ero sempre stato quello diverso.
Quando scappai dall'orfanotrofio avevo solo 12'anni.
Dopo un solo anno incontrai un gruppo di persone che mi accolsero fra di loro e che mi diedero un lavoro.
Ero un bambino. Alle prime armi.
Ancora non sapevo a cosa potesse portare il contrabbando. Ma un ragazzino giovane coi soldi che piovevano fra le mani avrebbe mai rinunciato? Era il denaro che mi avrebbe poi permesso i miei viaggi di ricerca sconsiderata.
Negli anni avvenire avevo saputo molte cose.
Mio padre era finito in un gran bel brutto giro e per salvarmi aveva deciso di lasciarmi appena nato. Voleva che io vivessi. Ed io, adesso, volevo trovarli.
«L'imbarco avverrà fra dieci minuti.» dice la signora «Siete pregati di consegnare tutto il necessario.»
Mi dirigo verso l'entrata, do i miei documenti falsi, mostro il biglietto, e poi mi addentro nel corridoio.
2h
Respiro l'aria frizzantina di San Francisco.
Con la valigia in mano mi dirigo fuori dall'aeroporto, devo cercare un posto per riposare la notte.
Rileggo il messaggio.
SCONOSCIUTO: Stasera, alle 22:00, allo Smuggler's Cove. Sii puntuale.
SCONOSCIUTO: posizione
Vado a vedere sulle mappe, è circa ad una mezz'ora da quì.
Chiamo un taxi.
Sono le 22:00 in punto.
Entro nel posto. È molto luminoso e pieno di accessori, sembra di trovarsi all'interno di una nave.
‹Odio i posti così affollati.›
Mi guardo attorno.
Dove sei?
Scrivo.
SCONOSCIUTO: Mi trovi al bancone. Ho una giacca verde
Mentre continuo a chiedermi se debba fidarmi oppure no mi dirigo lì. Metto i gomiti sul bancone ed incrocio le mani in attesa.
Il barista mi domanda cosa io desideri ma diniego dicendogli che sono a posto così.
SCONOSCIUTO: Prendi qualcosa da bere
SCONOSCIUTO: Se rimani li così sembri un idiota sospetto.
«Ma quanta simpatia...» parlo ad alta voce fra mé e mé.
Richiamo il barista e col mio perfetto inglese gli chiedo un Moscow Mule.
SCONOSCIUTO: Buon gusto, complimenti
Mi sto stancando. A che gioco sta giocando?
Adesso basta, mi sto__
Mentre sto ancora digitando il messaggio si siede vicino a me una ragazza dai lunghi capelli ricci e la pelle ambrata.
«Ciao. Me lo offriresti da bere?»
«Scusa, non sono quì per–..» la osservo meglio, porta una giacca di pelle verde sulle spalle.
Muove all'insù le sopracciglia «Allora? Vuoi ancora non offrirmi da bere?»
«Excuse me!» richiamo il barista.
...FINE FLASHBACK...
«Maick...?» Taylor mi scosse per la spalla.
Sbattei le palpebre.
«Tutto bene? Ti stavo parlando... Ma ti sei perso...» mi fece presente.
Riaccesi il mio sigaro e poi le risposi «Sì, sto bene.» fiagai.
Lei «A cosa stavi pensando?» mi domandò.
«A nulla.»
«Non ti piace raccontare agli altri quello che pensi vero?»
«No.» tirai su col naso e scenerai per terra.
Taylor continuò a parlare ‹Non tace mai?› «Perchè te ne stai sempre da solo?»
‹Perchè sono abituato.› «Perchè mi piace così.»
«Capisco...»
«Così nessuno può tradirti.» parlai a sproposito.
Attirai la sua attenzione «Di che parli?»
...FLASHBACK...
Dopo aver conosciuto Aisha, brillante e bella com'era, bastò poco tempo a far sì che me ne innamorassi.
All'inizio si era trattato di solo interesse, di semplici informazioni, ma la cosa andò ben oltre.
«Hei, eccomi.»
È appena tornata a casa dopo aver finito il suo turno di lavoro.
Io non esco mai da quì, lavoro da casa. Ho ormai smesso con la vita da contrabbandiere.
«Ciao cœur.»
Mi sorride.
Torno su ciò che sto facendo, non faccio altro che prendere appunti ed andare da una parte all'altra della stanza.
Poi mi chiede «A cosa stai lavorando?» ma non le rispondo.
Segno con un pennarello rosso un punto sulla mappa.
«Li ho trovati! Sono quà! Ne sono sicuro!»
Aisha pare non capire «Di che parli?»
La guardo, non dico niente.
«Pensavo che ave–..» «No.» la interrompo «Non ho smesso di cercarli.»
Aisha mi lancia una delle sue occhiate ammomotroci.
Alzo le braccia «Cosa!» ricadono sui fianchi «Ho passato la mia intera vita a voler cercare di capire, non potevo fermarmi!»
«Maick...» mi si avvicina.
Mi scosto, mi allontano «Tu mi hai detto che erano vivi e–..» «Sì, ma cercarli ti metterebbe in grossi guai. Sai che i tuoi genitori lavoravano da una vita per dei boss della mafia e avevano deciso di lasciarti perchè volevano che tu fossi libero! Non volevano che avessi il loro stesso destino. Che fossi legato, che fossi–..» «Basta. La so la storia, me l'hai raccontata una miriade di volte.» la fermo, non voglio più ascoltarla.
Aisha scuote la testa «Perchè ti ostini così tanto?»
«Perchè voglio che vengano liberati!»
«È così da generazioni! Che potresti fare?»
Sventolo una mano in aria «Lascia stare, non andremo mai d'accordo su questo.»
Decido di andare a prendermi una boccata d'aria.
«Stai uscendo?» mi riprende «Anziché risolvere preferisci andartene come al solito.»
«Voglio prima far calmare la rabbia. Non mi piace litigare, lo sai.»
Sbuffa una risata «Certo. "Le persone quando sono arrabbiate rischiano di dire quello che non pensano"!»
«Esatto.»
Mi indica la porta «Bene, va' pure!»
Scendo giù, passati dieci minuti noto che non ho il portafoglio così torno in dietro.
Quando salgo l'ultimo gradino tiro fuori le chiavi ma noto che la porta è rimasta leggermente aperta. Ero sicuro di averla chiusa.
Sto per entrare, ma odo delle voci.
«Stai cercando di depistarlo non è vero?!»
«No io–..» «Non è quello che dovevi fare!» viene interrotta.
«Dai, Max, sta' calmo.» gli dice un altro «Si è innamorata...» comincia a ridere.
«Non me ne frega un cazzo! Lei doveva dirgli che i suoi genitori sono ancora vivi e farglieli cercare per farlo arrivare a noi e–..» smetto di ascoltare.
‹No.› -penso- ‹Non posso crederci.›
Indietreggio. Inciampo all'indietro, si sente un tonfo.
«Cos'è stato?» sento dire «Hai chiuso la porta?»
Mi rialzo in fretta e ancora dolorante corro giù per le scale.
...FINE FLASHBACK...
«Scusa.» dissi a Taylor «Vado dentro. Ci vediamo.»